Non me ne vogliano gli ingegneri ferroviari se utilizzo questo titolo in maniera errata, stravolgendo il suo significato. Sulla carta, infatti, lo “scartamento ridotto” è la distanza tra una rotaia e l’altra, inferiore rispetto allo standard di una nazione. Non è certo l’utilizzo che ne faccio io per indicare giorni passati a ridurre spazzatura, scartando meno pacchetti di plastica possibile.
Qualche mese fa lessi l’impresa della designer australiana Erin Rhoads e della sua sfida a non produrre alcun tipo di spazzatura, se non quella strettamente necessaria. Mi colpì molto la sua idea e da quel giorno decisi di cambiare le mie abitudini, almeno in parte. Ne parlai in famiglia, mi dissero che era impossibile perché ormai siamo in un tunnel globalizzato, senza via di uscita. Ma per me “impossibile” è una parola che dovremmo abolire, così decisi di provare, cercando di essere coerente con me stesso.
Il primo passo fu l’acqua da bere: eliminai subito le bottiglie in plastica, comprando una cassa di una nota acqua che da sempre utilizza soltanto quelle in vetro e tappi di alluminio resistenti nel tempo. In questo modo feci scorta di ottimi contenitori per poterli riempire al fontanile. Notai di aver già ridotto tantissimo il secchio della plastica. Preso dall’entusiasmo di un bambino che realizza il suo primo oggetto con la pasta modellabile, decisi di andare avanti. Mi scontrai con parecchie difficoltà, perché alcuni cibi o prodotti di uso quotidiano dovevo per forza comprarli e non potevo farne a meno. Iniziai una fervida ricerca sui prodotti non inquinanti, fatti totalmente in maniera ecologica, dal prodotto contenuto all’interno fino alla sua confezione.
Utilizzando la rete in maniera attenta, districandomi bene da ciò che era “biologico” per fare solo marketing e ciò che realmente veniva prodotto per rispettare l’ambiente, trovai tantissime aziende italiane che da anni portano avanti la battaglia contro l’inquinamento ambientale. Trovai saponi, detersivi, utensili e tanto altro materiale, nelle loro confezioni naturali. Il metodo di ricerca era basato su semplici regole: riutilizzabile, naturale ma, soprattutto, necessario. Mi abituai a prendere la farina dal mulino (fra l’altro, non ha nulla a che vedere con quella industriale), l’olio al frantoio, le uova solo dalle galline di amici e parenti quando ne avevano. Avevo creato una vera e propria “rete personale”, fatta di agricoltori, apicoltori, vinai e anche di pensionati, in fila insieme a me al fontanile di Guarcino. Mi sentivo meglio, non per essermi messo a posto la coscienza, ma fisicamente. Avevo raggiunto un discreto equilibrio fisiologico, sentivo la pelle più morbida oltre a conoscere ogni dettaglio sul rifacimento del manto stradale del paese, grazie ai vecchietti seduti sui muretti che monitoravano gli operai.
Non è facile. Non è per niente facile. In un mondo così globalizzato si cade spesso nell’incoerenza. Perché, quando meno te l’aspetti, inconsapevolmente, scarti un pacchetto dicendo: “porca miseria, non dovevo farlo!”. La verità è che dobbiamo abituarci a ridurre, senza eliminare drasticamente tutti i prodotti industriali. Sarebbe impossibile farlo. Durante gli ultimi anni io e la mia famiglia ci siamo convertiti alle fonti rinnovabili e all’utilizzo delle cose solo se realmente necessarie, per esempio indossando i vestiti finché i tessuti ne consentano una decenza in pubblico, anche se possiamo sembrare poco alla moda. Abbiamo studiato nuove ricette per cucinare il più possibile da zero senza comprare cibi preconfezionati. Ma non ci siamo mai schierati in maniera solenne odiando tutti quelli che aprono una confezione di patatine fritte solo perché abbiamo intrapreso una battaglia ecologica. Perché schierarsi in maniera solenne significa dover essere integerrimi, cosa umanamente impossibile nella società in cui viviamo, a meno che si decida di ritirarsi in eremitaggio su una montagna, ma questa è un’altra storia. Cambiamo le abitudini quotidiane senza stravolgerle, verso uno scartamento ridotto!
Francesco Cerro